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Orari di apertura

Dal Prânâyâma al Pratyāhāra

Y.S. II 53:
Dharanasu cha yogyata manasa.
Allora la mente è pronta alla concentrazione (dharana).

Il naturale esito di un Prânâyâma corretto a sua volta esito di una corretta pratica di Asana a valle di Yama e Niyama è l’accesso ad una buona dose di interiorizzazione così che il respiro si dovrebbe sospendere naturalmente.
Ma che tipo di respiro e che segnale ci fornisce una ‘sospensione’ o rallentamento naturale del respiro? Ci indica che siamo riusciti a tirar fuori l’anima dal dominio dei sensi. Significa che per qualche breve o più lungo momento, riusciamo ad essere padroni dei processi di pensiero, di sentimento e degli stimoli ad agire e che tutto questo non accade più in automatico ma come esito di una presenza a sé stessi.
Questo è il senso del Pratyāhāra.
Possiamo dire a questo punto di aver steso un ponte, quello tra il bahir Yoga o yoga più esterno, fisico corporeo e l’‘antar Yoga, uno yoga più interno o meglio dire profondo-spirituale. Uno yoga che ci conduce ad una maggior presenza a noi stessi. Una presenza sempre maggiore della nostra Coscienza, del nostro IO sulle cose della vita.
Quando sapremo attraversare questo ponte potremo dire di trovarci realmente su un altro livello di coscienza.

“Pratyahara” etimologicamente si può tradurre con l’espressione “contro alimentarsi” ovvero smettere di nutrirsi del, potenzialmente infinito, flusso di informazioni che ci giungono continuamente addosso e che sono frutto delle percezioni dei sensi. Stimoli che sono l’alimento base della nostra mente.
Queste INFORMAZIONI che giungono dal MONDO ESTERNO per mezzo dei sensi sono:
ciò che vediamo
ciò che ascoltiamo
ciò che gustiamo
ciò che odoriamo
ciò che tocchiamo

Con il Pratyāhāra si impara ad arrivare ad un consapevole distacco di percezione dagli stimoli sensoriali. I sensi, le porte verso l’esterno, vengono intenzionalmente messi a riposo.
Il continuo frullare nella mente di percezioni e relative sensazioni ed azioni stimolo-risposta generano quelle che si chiamano Vritti, i vortici di caos che ci rendono esseri quasi automatici e che ci distraggono dalla percezione del nostro vero IO, cioè da quel regista che dovrebbe fare da guida alla nostra vita terrena al fine di aiutarci ad elevare il nostro grado di Coscienza.
Il corpo fisico quale tempio ove abita questo nucleo spirituale è la base da cui è necessario partire per questo cammino di evoluzione.

Grazie al Pratyāhāra abbiamo l’opportunità di ad entrare in uno stato di distacco dal veicolo fisico-animico (anima senziente) ed allungare lo sguardo verso una parte di noi non reattiva ma contemplativa. Il seguito di questa “pratica” si trasforma per similitudine in una attivazione della capacità di discernimento.

Se vogliamo andare a conseguire una riappropriazione cosciente delle nostre straordinarie facoltà tipicamente umane, si deve pare piazza pulita di tutta la confusione generata dalla mente di superficie, quella degli automatismi .
L’uomo basa la sua esistenza terrena sulle informazioni che rimandano i sensi; il punto non è rinnegare i sensi ma controllare le rappresentazioni che si fa la mente di superficie a seguito della percezione sensoriale a causa della programmazione sociale nella quale siamo immersi.

Vediamo il processo

Poiché i sensi necessariamente producono una percezione, questa deve essere elaborata e trasformata in sensazione, “bello, brutto, rosso, morbido, faccio, vado, esco”. Ma se questo abbinamento è condizionato dall’esterno, dall’inconscio, dai modi di fare della società cui apparteniamo, dalle forme pensiero con cui siamo cresciuti ed in cui viviamo (quella che si chiama opinione pubblica), dalla PNL (tecniche di programmazione-manipolazione neuro linguistica) dai media e via così, quella percezione sensoriale diretta(pratyaksa), seppur appartenente alle forme di conoscenza retta “Pramana”, come dice Patanjali, perde la sua veracità nel momento in cui incontra i filtri della nostra mente di superficie.

Dunque le percezioni sono corrette, i sensi funzionano bene, è “l’interpretazione dei risultati” ad essere fallace.

Allora la prima cosa che dobbiamo fare è intervenire sui sensi.
Staccare la spina che collega i pensieri condizionati ai 5 sensi.
Se io acquieto i 5 sensi, li isolo (od al contrario porto su di essi in maniera pulita tutta la mia attenzione), la mente nel primo caso non potrà avere più percezioni diretta da quella fonte, nel secondo caso sarà obbligata a non pensare per i fatti suoi. Certo, ancora non smetterà di produrre pensieri automatici ma le daremo una alternativa alla quale potrà appigliarsi. Peraltro se si stacca la mente dalla percezione sensibile, si staccano tutte le brame, i sentimenti, i desideri, le reazioni automatiche ad essi collegati.
E questa alternativa non sarà un automatismo ma una scelta prodotta da noi

Se lavoriamo alla dispersione sensoriale, senza i sensi, i pensieri non potranno più nutrirsi delle percezioni sensoriali dirette. Dovranno alimentarsi da un’altra fonte. Quale sarà?

La mente potrà scegliere poi fonti di conoscenza corretta, come i contenuti trasmessi dai maestri o sapienti in generale, o iniziare a lavorare autonomamente su deduzioni logiche originate da un chiaro pensiero
Insomma non sarà più qualcosa dentro di noi che pensa i suoi pensieri e ci fa credere che siano nostri, ma saremo noi a fornire alla mente di superficie il “materiale da pensare“. Un grande stratagemma. 

Iniziamo dunque a dare un cibo diverso da quello solito legato alla percezione diretta dei sensi ed interpretata secondo gli schemi mentali automatici dei quali siamo schiavi inconsapevoli.
La contro alimentiamo. In quello stato di assenza dei sensi dunque possiamo percepire che i pensieri ci sono sempre. Ma stiamo già facendo un ottimo lavoro di osservazione e distacco (vairagya).

Tecniche come Antar Mouna che vedremo, ci insegneranno a guardare ciò che passa nella coscienza ordinaria o mente di superficie ed a scegliere cosa vogliamo che rimanga e cosa no.
Sarà una scelta selettiva dei nostri pensieri.
Questo perché ci stiamo allenando a scoprire che i pensieri che crediamo di pensare, non li pensiamo noi, i pensieri arrivanoE non sappiamo da dove, non sappiamo chi li produce.
Quando vedremo questo semplice dato di fatto saremo sulla strada digovernare il nostro processo del pensare.

Infatti, approdando alla concentrazione (passo successivo), tra tutti quei pensieri finalmente potremo scegliere quale di essi pensare e lo agganceremo cercando di non mollarlo per tutto il tempo che noi avremo deciso, liberamente.
La nostra mente penserà ma penserà ciò che abbiamo deciso noi. L’alimentazione della nostra mente la sceglieremo noi e non il mondo esterno o quello inconscio.
Questo significa iniziare ad esercitare la facoltà del distacco ed avvicinarci alla vera Libertà.
Questo significa anche iniziare ad esercitare la facoltà del discernimento,
Allenando queste due qualità anche prima di arrivare a stati coscienziali superiori, capiterà che di fronte ad un avvenimento saremo in grado di vedere le diverse opzioni e decidere quale di esse sia la più sana.
Quanto ci insegnerà il Pratyāhāra è imparare ad usare tutte le nostre potenzialità eliminando prima ciò che non serve, ciò che ci inganna, ciò che ci fa travisare, fraintendere, distorcere la nostra vita e le situazioni che incontreremo e poi ad agire in modo equo ed imparziale, libero, senza condizionamenti, e pregiudizi.
Poi, se vorremo, potremo spingerci oltre e fare un salto nell’Antar Yoga, quello della concentrazione e della meditazione dove scopriremo mondi ancora più interessanti che ci riguardano ma prima dovremo averattraversato con successo questo ponte.

Ricapitolando.

L’esperienza quotidiana è fatta di stimoli sensoriali ma la mente di superficie o coscienza ordinaria se lasciata libera, interpreta secondo ciò che in essa si è stratificato nel corso di tutta la nostra esistenza producendo pensieri re-attivi e non pensieri liberi.Noi dobbiamo veicolarla ad acquisire una capacità di azione libera, distaccata dai meccanismi azione-reazione/causa-effetto.

Il distacco 

La parola distacco viene spesso erroneamente interpretata.
L’immagine che si forma è quella di una persona indifferente, fredda, disinteressata.
Rende invece molto meglio la metafora del fiore di loto.
La sua caratteristica è che le radici affondano nel fango quindi, non può crescere senza il fango, ma nonostante ciò, i suoi petali sono splendenti ed incontaminati. 
Il fiore di loto affonda nella melma, simbolo delle difficoltà e come nelle difficoltà, l’IO riesce a rimanere puro.
Questo significa che possiamo continuare ad avere le nostre radici nella melma delle difficoltà quotidiane ma nonostante ciò non farci risucchiare da quel fango e rimanere puri.
Una persona che abbia conquistato la sana virtù del distacco non ha perso quella dell’umanità, dell’amore, dell’interesse e di fronte ad un incidente che vede accadere davanti ai suoi occhi, interviene lucidamente chiamando i soccorsi e magari salvando la vita ad un’altra persona se sa mettersi a disposizione con le sue conoscenze.
Chi non sia capace di distacco di fronte ad un avvenimento traumatico, può svenire, scappare, entrare in panico.
Il sano distacco dunque nulla ha a che fare con l’indifferenza, anzi, in quella situazione dell’esempio, la mantenuta lucidità farà prendere alla persona le migliori decisioni discriminando ciò che è giusto fare da ciò che non lo è.
Il sano distacco usa la percezione sensoriale e la interpreta senza filtri, senza categorie, giudica equanimamente ed agiste.
Non reagisce, agisce.
Ma per distaccarci abbiamo bisogno di “prendere le distanze” da ciò che accade, come facciamo di fronte alla tela di un artista in una galleria d’arte. Distacco dignifica infatti “togliere dal tocco”. Distacco allora è legato ad una osservazione da lontano.
Quando ci assalgono, ci toccano emozioni come paura, rabbia,frustrazione, ma anche gioiaentusiasmo abbiamo la cartina tornasole che rispetto a ciò che stiamo vivendo non c’è distacco, non siamo in una visione da lontano.
Anzi spesso in questi casi si tende a dare la colpa o il merito del nostro stato d’animo agli altri:
sono arrabbiato con…, sono felice perchè lui, lei mi hanno…”,
ma questo significa mettere nelle mani degli altri il telecomando della nostra vita.
Se abbiamo rabbia o rancore, dobbiamo imparare ad osservare queste emozioni e vedere da dove originano e sicuramente vedremo che sono frutto di tutta una serie concatenata di reazioni.
Tuttavia non sempre le cose sono così semplici come quando si fanno gli esempi. 
Spesso la vita è molto più complessa e spesso le situazioni sono così ingarbugliate che guardarle da fuori non è realmente semplice.
Le tecniche che insegna il Pratyāhāra servono ad imparare il modo per raggiungere questo distacco benefico e poi trovarci ad applicarlo nella “nostra” vita perchè diventato parte di noi, portando beneficio non solo a noi, ma a tutti coloro con i quali ci relazioneremo.

La meraviglia dello Yoga è che è una scienza esatta.
Quindi utilizzando gli strumenti infallibili e ripetibili che essa ci offre possiamo aiutare noi stessi a trovare la nostre essenza, libera dalle influenze esterne.

Christina