Per secoli, sin da quando si immagina la sua origine, lo Yoga è stato tramandato oralmente ovvero da maestro ad allievo.
Ma accanto alla antica tradizione orale esiste una successiva ricca produzione di testi, in forma di aforismi, versi ed anche guide pratiche.
I testi sullo yoga del periodo classico
I Veda
I più antichi testi della cultura indiana, databili tra il 1500 e il 1200 a.C.
In essi si trovano i primi riferimenti allo yoga.
Si tratta di un insieme di scritti, suddivisi in quattro parti. Lo yoga definito come “unione” o “disciplina” è menzionato già nella prima parte, il Rigveda, il più antico testo in lingua indoeuropea. In esso e non vi è alcun riferimento alla pratica.
Nell’Atharvaveda, il quarto testo che compone i Veda, sono invece fatti i primi cenni sul pranayama.
Le Upanishad
Le Upaniṣad (sanscrito, sostantivo femminile, devanāgarī: उपनिषद्) sono un insieme di testi religiosi e filosofici composti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (il IX secolo inizia dall’anno 900 all’801 avanti Cristo – il IV secolo inizia dall’anno 400 al 301 avanti Cristo). Le Upanishad sono l’ultima parte dei Veda e sono dette infatti anche Vedanta, ovvero “fine” e “culmine” del Veda, in cui un maestro impartisce insegnamenti ai discepoli riguardo alla metafisica, al destino dell’essere umano ed ai mezzi per ottenere la salvezza.
La concezione di una realtà non dualistica, ovvero in cui una sola è la realtà assoluta, la devozione e la contemplazione di un Dio unico, la rinuncia al mondo ma anche il compimento degli obblighi rituali sono alcuni dei temi trattati nelle Upanishad. Quelle canoniche o classiche sono quattordici, ma ne seguono altre fino a un numero simbolico di 108.
Le Upanishad descrivono lo yoga come un sentiero da percorrere per raggiungere la liberazione dalla sofferenza attraverso la saggezza e lo distinguono in Karma yoga (yoga dell’azione) e Jnana yoga (yoga della saggezza e del discernimento).
Le Upanishad ancora non trattano in dettaglio la filosofia dello yoga, ma ne delineano gli enunciati mistici e profondi.
Bahagavad Gita
Importantissimo testo del IV secolo d.C. fa parte del Mahabharata, il grande poema epico indù. E’ ritenuto il primo vero testo di yoga.
Il Bhagavad Gita indica tre vie per ottenere l’illuminazione:
- Jnana Yoga, il sentiero della saggezza – (pensare)
- Bhakti Yoga, la devozione verso il divino – (sentire)
- Karma Yoga, il sentiero dell’azione – (agire)
Potremmo dire in una visione antroposofica le tre facoltà dell’anima ed i sentieri pensare, saggezza (anima razionale e cosciente), sentire (anima senziente), volere (agire).
Descrive anche le pratiche degli yogi del tempo:
il pratyahara (la ritrazione dei sensi) e il pranayama (il controllo della respirazione).
Il testo di Patanjali ha unito diverse pratiche e tradizioni in un’unica opera, in modo sistematico e coerente.
Possiamo considerare questo all’origine dello yoga moderno. Probabilmente databile attorno al V secolo d.C., è un punto di riferimento per molte forme di yoga e di meditazione.
Lo Yoga Sutra è una raccolta di 196 aforismi, ovvero affermazioni concise, rivolte dal maestro ai suoi allievi.
Il cuore del testo è esposto nel secondo capitolo con le otto braccia o rami dello yoga, chiamato per questo Hastanga Yoga (hastahnga significa appunto otto anga-rami e che non è quella cosa che va tanto di moda ora nelle palestre…). Esso è un percorso in otto stadi che i praticanti dovrebbero seguire per giungere all’autorealizzazione in Terra e la cosciente riunione col Divino.
I testi sullo yoga del periodo post-classico
Fondamentali sono gli scritti di Goraska, che nel IX-X secolo d.C.parla dei sei livelli di incarnazione, dal corpo fisico al corpo sottile, descrive i chakra e l’importanza del mantra “Om”.
Del XV secolo d.C è l’Hatha Yoga Pradipika (letteralmente “fare luce sull’Hatha Yoga”) di Swatmarama.
Descrive diverse asana, per lo più varianti della posizione del loto e poi mudra, bandha ed otto esercizi di pranayama.
Del XVII secolo d.C sono invece le 32 le asana ed i 25 mudra descritti nelGheranda Samhitâ, un testo che fornisce anche indicazioni sull’alimentazione e sulla condotta individuale che un praticante di yoga dovrebbe mantenere (niyama).
Infine Shiva Samhitâ , un trattato del XVIII secolo d.C.
Si tratta di un dialogo tra Shiva e Parvati ove Shiva spiega a Parvati gli aspetti e le pratiche più importanti dell’Hata Yoga. E’ anche considerato un’opera del Vedanta.
Non si tratta dunque di testi antichissimi, anzi, relativamente recenti. Il primo risale al 1400, gli altri due si snodano fino al XVIII secolo. Questo è molto interessante perché sono testi che risalgono ad un periodo storico molto particolare.
La fine del medioevo, prima della rivoluzione scientifica. È come se anche l’uomo yogico avesse sentito la necessità di entrare più approfonditamente nella materia. Patanjali e l’uomo del suo tempo non ne avevano bisogno, infatti, per Asana abbiamo visto essere intesa solo una posizione stabile e comoda, in una parola: equilibrata.
Tutti gli Yoga Sutra sono strutturati per fermare l’uomo in una posizione di equilibrio. Nirodhaḥ di tutto l’essere umano. Anche lo stesso Prânâyâma per Patanjali è l’arresto di inspirazione ed espirazione. Potremmo dire che è l’arresto delle fluttuazioni di inspiro ed espiro.
Se ci pensiamo il flusso respiratorio è espressione del flusso mentale. Possiamo capire il nostro stato mentale dal modo in cui respiriamo.
Fermarlo spontaneamente significa che a monte è accaduto qualcosa: si è fermato il turbinio della mente.
Dunque, tutto ciò che andiamo a praticare direttamente sul nostro corpo ha come brocardo il Sutra II.46 che esaurisce la pratica di Asana in un solo versetto:
Asana è una posizione stabile e confortevole ottenuta in assenza di sforzo e con la fusione (dei limiti del corpo) con l’infinito.
Ma anche i tre testi di riferimento successivi sopra menzionati, non è che siano così generosi nell’indicare le pratiche Asana.
Hatha yoga pradîpikâ descrive una ventina di âsana, Gherandha Samhitâ trentadue, Shiva Samhitâ quattro. I tre trattati non sono dunque manuali ad uso di autodidatti.
L’insegnamento dell’Hata yoga può dunque essere impartito solo attraverso la guida di un maestro. I tre testi svolgono dunque la funzione di promemoria della struttura delle âsana.
Gherandha Samhitâ chiude ohi diatriba e dice infatti che sono ottantaquattro milioni le âsana descritte da Shiva, 84 le migliori e tra queste solo 32.